Violetta Rocks

Photography Aldo Giarelli
Styling Emi Marchionni
Make-Up and Hair Simona Picciaccio

 

DIGITAL COVER STORY
Violetta Rocks 
wears total look Angelos Frentzos

Interview Marina Cuollo

L’amore per le storie che lasciano il segno è ciò che a mio avviso rende Violetta Rocks una persona che non si dimentica facilmente. Artista poliedrica, ha esplorato con successo diversi ambiti della creatività: dal debutto su YouTube, dove la critica cinematografica è diventata il suo marchio di fabbrica, fino alla sceneggiatura e alla regia del suo primo film, tratto dalla sua stessa graphic novel, “Il migliore dei mali”. La sua passione per il cinema e la sua capacità di scrivere personaggi queer e parlare di rappresentazione in maniera accurata, rendono Violetta Rocks una voce davvero interessante nella cultura contemporanea.

 

Youtuber, autrice di graphic novel fino al debutto sullo schermo come filmmaker. Ti va di raccontarci il tuo percorso artistico?
Ho iniziato su YouTube nel 2011, quindi è passato più di un decennio. Tuttavia, il mio amore per il cinema nasce ancora prima, ai tempi del liceo, dove mi sono appassionata grazie a un corso di recitazione a scuola. Mio padre in quel periodo aveva comprato una piccola videocamera a nastro per riprendere i saggi di scuola e io sono rimasta attratta da quell’oggetto, così ho iniziato a giocarci e da lì è sbocciata la mia passione per il cinema. Dopo il liceo ho cercato corsi che potessero interessarmi per capire quale direzione prendere nel cinema, se continuare con la recitazione o esplorare il dietro le quinte, che poi si è rivelato essere il mio vero interesse.

 

E come si è sviluppata la tua passione per il cinema da quel momento in poi?
Pur avendo fatto molti anni di teatro, circa dieci, ed essendo stata un’esperienza formativa anche a livello personale, la passione principale è sempre stata quella di raccontare storie. Inizialmente pensavo di farlo con la regia, ma col tempo ho scoperto anche la scrittura, specialmente attraverso i fumetti, che forse è l’aspetto che più di tutti incarna la mia esigenza di esprimermi. Negli anni, mentre lavoravo qua e là, anche in centri commerciali per fare qualche soldo, YouTube è diventato un luogo per me quasi sperimentale. Ho iniziato con sketch comici, che all’epoca mi sembravano la forma di comunicazione più spontanea, essendo ancora fresca di teatro. Poi, col tempo, ho sentito il desiderio di parlare di cinema e serie TV, portandomi a dare una nuova direzione al mio canale. Questo cambio ha comportato una naturale evoluzione del mio pubblico: alcuni sono rimasti, altri sono arrivati. Questa transizione tematica per me aveva perfettamente senso, rifletteva la mia naturale evoluzione e alla fine ha funzionato. Mi sento nel posto giusto parlando di cinema e quando mi viene data l’opportunità, mi piace raccontare storie, scrivendo sceneggiature e cogliendo tutte le occasioni che si presentano lungo il cammino.

 

Il tuo primo film, “Il migliore dei mali”, è tratto dall’omonima graphic novel, un’avventura tra giallo e fantastico. In attesa dell’uscita non spoileriamo nulla, ma ti va di raccontarci qualcosa sul processo di adattamento dal fumetto allo schermo?
La realizzazione del film ha richiesto un attento lavoro di adattamento in collaborazione con altri due sceneggiatori, il cui contributo è stato inestimabile. Trasformare un’opera da un medium all’altro rappresenta sempre una sfida interessante, perché bisogna navigare tra i diversi linguaggi del fumetto e del cinema, ciascuno con le sue peculiarità e sfumature. Durante questo processo, abbiamo effettuato modifiche e adattamenti, tenendo conto delle specificità linguistiche e delle esigenze produttive. Questo ha implicato alcuni compromessi e particolari attenzioni nel trasferire elementi dalla carta allo schermo, dato che ciò che risulta efficace in un fumetto potrebbe non avere lo stesso impatto visivo in un film. Di conseguenza, chi conosce la graphic novel noterà certamente differenze nella sua trasposizione cinematografica, differenze che spero possano essere comunque apprezzate.

Mi colpisce molto la tua capacità di scrivere personaggi appartenenti a categorie sottorappresentate e il modo in cui analizzi questi aspetti nei tuoi contenuti. Come hai maturato questa consapevolezza?
Per quanto possibile cerco sempre di rendere giustizia alle storie meritevoli e a evidenziare le criticità dove necessario, senza mai demolire il lavoro altrui, mantenendo un atteggiamento di rispetto anche quando non condivido certe scelte narrative o caratterizzazioni.
Mi sento ancora molto piccolina in realtà in questo percorso, il mondo è un luogo vasto e complesso, e i social media, nonostante i loro aspetti negativi, offrono opportunità uniche di confronto e scoperta. Ho sempre cercato di adottare un approccio di apertura e ascolto, tentando di comprendere esperienze di vita diverse dalla mia. Ritengo sia fondamentale per chiunque voglia raccontare storie.
La curiosità mi è stata trasmessa dalla mia famiglia, in particolare da mia madre, che era a suo modo una femminista, anche se forse non consapevole di esserlo. Mi ha sempre incoraggiato a non accettare passivamente dogmi o apparenze, a interrogarmi e dubitare, per scoprire se ciò che viene imposto corrisponde alla realtà o se esistono prospettive alternative. Questo spirito di ricerca mi guida in un continuo percorso di apprendimento. Certo, ci sono stati momenti in cui anche io ho commesso errori o espresso opinioni che oggi non condividerei, influenzata da un contesto culturale stigmatizzante. Tuttavia, mi impegno a rimanere in un costante stato di ascolto verso chi vive realtà diverse dalla mia, conscia che questo processo di arricchimento personale non finirà mai.

 

Passando alla relazione con il corpo, come hai vissuto l’esperienza di uno shooting fotografico?
È stato incredibile vivere quest’esperienza. Ammetto di non avere un gran rapporto con il mio corpo; e credo sia un sentire comune, soprattutto tra le donne, a causa degli standard imposti. Anche io ne sono stata travolta, specialmente crescendo negli anni ’90, quei canoni estetici rigorosi hanno influenzato negativamente anche il mio rapporto con il cibo. Oggi certamente una delle scelte migliori è stata quella di rivolgermi a una terapeuta e non solo per le questioni che riguardano i DCA. Davanti allo specchio a volte è difficile riconciliarsi con l’immagine riflessa. L’essere fotografata poi, è una cosa che mi mette particolarmente in difficoltà, perché non c’è controllo. Contrariamente ai video, dove gestisco tutto io, dalle luci al trucco, in uno shooting ti affidi completamente a qualcun altro. È stata una situazione spaventosa, ma paradossalmente è per questo che ho voluto farlo. Aldo mi ha fatto sentire a mio agio già dalle prime conversazioni. Volevo affrontare questa sfida personale, e durante lo shooting, pur con un’iniziale rigidità, ho gradualmente trovato una certa confidenza. Rivedere le foto e notare l’evoluzione durante la giornata è stata una rivelazione. E ora, nonostante la riluttanza, potrei considerare di ripetere l’esperienza. Sì, non è facile vedersi in foto, ma quel pomeriggio è stato un passo importante, e forse, e dico forse… lo rifarei.

 

Per chiudere, hai qualche consiglio di visione per chi desidera allargare lo sguardo sul tema della rappresentazione?
Parlando di cinema, c’è sicuramente “Promising Young Woman” che ha ottenuto l’Oscar per la migliore sceneggiatura; è un film unico nel suo genere, nel modo in cui parla di cultura dello stupro e rappresentazione femminile. Purtroppo, non ha avuto tutta la visibilità che meritava, sarebbe stato meraviglioso se avesse avuto l’attenzione di un film come “Barbie”. Tuttavia, capisco che “Promising Young Woman” pur essendo registicamente splendido e fortemente evocativo, presenta una narrazione che non è facilmente accogliente per tutti, e probabilmente rappresenta una scelta più adatta a chi ha già iniziato un percorso intorno a questi temi. Del resto “Barbie” ha saputo attrarre un pubblico vasto e, nonostante possa apparire didascalico in alcuni momenti, il suo successo suggerisce che ha comunque centrato il suo obiettivo.
Per quanto riguarda le serie, “Heartstopper” di Netflix la consiglio spesso. È stata una rivelazione per me perché, al contrario di tanti racconti LGBTQ+ spesso improntati sul dramma e il dolore, offre un rifugio sicuro e una rappresentazione positiva, una boccata d’aria fresca. È dolce, accogliente, e dimostra che si possono raccontare storie autentiche senza scadere nel tragico. E poi, è nata da una graphic novel di successo, il che dimostra la sua risonanza con il pubblico. Offre delicatezza e attenzione, e non ti lascia in costante stato di allerta, cosa rara e preziosa. Quindi sì, “Heartstopper” è qualcosa che posso consigliare a tutti, non solo agli adolescenti. Magari avessimo avuto anche noi qualcosa del genere quando eravamo più giovani!

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