Giulia Paganelli

Photography Aldo Giarelli
Styling Michele Rombola
Make Up and Hair Silvia Galeazzo
Set Design Arianna Dell’Opera
Artworks Paola Ganci
All Clothing Stylist’s Archive

 

DIGITAL COVER STORY
Giulia Paganelli

 

Interview Marina Cuollo

Quando cresci in un corpo non conforme ci sono cose che introietti, spazi a te preclusi, condizionamenti che con il passare del tempo da bagaglio diventano certezza, a meno che non arrivi qualcosa a mostrarti una realtà differente. La moda è uno di quei settori che ancora oggi si rivela profondamente escludente, specialmente per un corpo grasso.
Questo servizio nasce proprio da questa consapevolezza, e in queste righe più che un’intervista canonica leggerete un dialogo tra due persone che abitano alcuni dei corpi che la società non vuole vedere. Ma come dice sempre Giulia Paganelli, noi ci provano a cambiare le cose, 5 minuti alla volta.
Giulia Paganelli, antropologa, scrittrice e storica, si occupa di tutto ciò che riguarda il Corpo e le pratiche discorsive e dinamiche cognitive che ne derivano. Partendo da streghe e mostri per arrivare alle non conformità contemporanee con un focus specifico sui corpi grassi e la discriminazione grassofobica, attraversa e analizza storie, rappresentazioni e stereotipi. Scrive di Corpi e di Storie per The Italian Review, per Storytel e sul suo profilo Instagram @evastaizitta. Le è stato conferito il premio per il Miglior prodotto digital ai Diversity Media Awards 2023.

Giuro che non è mia intenzione iniziare questa conversazione con una domanda modello terapeuta, ma visto che ci conosciamo da un po’, posso chiederti cosa hai provato durante il servizio?
La verità? Io non ci ho dormito la notte, letteralmente. Ho fatto il viaggio in treno da Modena a Torino con un discreto livello di ansia e una sindrome dell’impostore dietro la schiena che tutto il tempo non faceva che dirmi: non uscirà neanche una foto decente, sarà terribile per te.
Non ci girerò intorno, per una persona che indossa da sempre un corpo grasso è un’esperienza che spaventa, e allo stesso tempo fa anche molto male, perché a un certo punto inizi a divertirti e ti rendi conto di cosa ti sei persa fino a quel momento. Non è tanto quello che ho provato durante il servizio – perché tutti sul set sono stati incredibili e mi hanno messo completamente a mio agio – è stato dopo, quando sono tornata a casa che ho realizzato cosa provano le altre persone e che io per quarant’anni non ho avuto esperienza di questa sensazione fino a quel momento. Ma perchè? Ho provato un profondo senso di ingiustizia.

Mi hai fatto tornare in mente il mio servizio per Flewid, che a differenza del tuo è stato realizzato all’aperto. Il mio pensiero non era tanto focalizzato al risultato delle foto ma all’attenzione che avremmo attirato tra la gente, visto che già normalmente la attiro di mio senza alcun tipo di circo intorno. A un certo punto però mi sono dimenticata di tutte le persone che si fermavano a guardare, o almeno non mi dispiaceva che per una volta l’attenzione fosse comunque diretta più a quello che facevamo piuttosto che al mio involucro. In un modo o nell’altro è come se esperienze di questo tipo ci fornissero nuovi punti di vista verso il nostro corpo, credo sia una cosa importante per chiunque indossi un corpo marginalizzato.
È vero. Noi eravamo in studio, oltre a me c’erano Aldo Giarelli (Fotografo), Silvia Galeazzo (MUA), Michele Rombola (Stylist) e Andreea Maftean che si è prestata per le foto. E fin da subito è stata una cosa un po’ marziana, perché già dopo il trucco mi sono stupita del risultato. Nonostante questo però, per tutto il servizio fotografico non ho voluto vedermi né in foto né allo specchio, e questo per evitare che il mio mood potesse risentirne, visto che non avevo alcun tipo di aspettativa positiva, io lo dico sempre che siamo tutti grassofobici – in misure diverse – ma lo siamo tutti. Poi però, per l’intero pomeriggio non c’è mai stato un momento in cui il mio corpo era un problema. Tutti i vestiti andavano bene, e se non andavano bene venivano aggiustati in qualche modo con un miliardo di idee. La prima cosa che ho pensato è stata: wow, allora è così che si sente un corpo magro? La conferma di quanto potente fosse quello che abbiamo fatto l’ho avuta solo dopo, a distanza di giorni, quando abbiamo guardato le foto. Sono rimasta folgorata, non mi aspettavo un risultato del genere, mi sono piaciuta tantissimo. Ad ogni scatto che scorreva mi dicevo: ma allora anche questa sei tu? È una cosa incredibile!

Quello stupore nel rivedersi come mai ci saremmo aspettate è una cosa che ho sentito forte anche io, sai. Sono i servizi che dovrebbero essere costruiti sui corpi, e non viceversa. Purtroppo non succede spesso. Da alcuni oggetti di scena che ho avuto modo di vedere in anteprima, ho percepito subito che il servizio sarebbe stato molto affine alla tua personalità.
Sì, quello che mi interessava era fare un servizio di moda-non-moda, un servizio che avesse una valenza semantica e culturale. In questo periodo le mie riflessioni sono molto legate al recupero dell’ombra come parte valoriale della persona usando gli abiti come scenari abitativi diversi, ma che comunque convivono all’interno dello stesso individuo. È in qualche modo anche lo specchio del mio percorso di riappropriazione dell’ombra, che per tanto tempo è stata messa da parte. Giocare con il fantastico poi, ha un significato importante per me.

Cioè?
In tempi recenti la tendenza della letteratura sta andando molto verso memoir e non-fiction, e ti confesso che faccio un po’ fatica a leggere questa tipologia di storie, non ci trovo niente di diverso da quello che conosco già. Io sono una persona che è cresciuta leggendo Il signore degli anelli, i libri di Stephen King, di Lovecraft, per me la scrittura fantastica è ciò che probabilmente racconta meglio in assoluto il mondo in cui viviamo. Se ci pensiamo alla fine è letteratura fantastica anche L’interpretazione dei sogni di Freud, è parte del fantastico tutta la sperimentazione di Hofmann con gli psichedelici, è fantastico il modo in cui ne La lotteria Shirley Jackson ci racconta un’umanità post Seconda guerra mondiale. E se è pur vero che tutti questi racconti sono inverosimili, sono horror, sono cose che non vediamo visivamente nel mondo in cui viviamo, ci danno in realtà tanti strumenti in più per andare sotto la superficie delle cose. Ecco, io forse mi sono stancata di stare sulla superficie.

Credo che qui risieda un aspetto importante. Anche io sono convinta che le storie fantastiche abbiano la capacità di raccontare molto meglio la realtà. Io vedo più realismo in un’allegoria, in una metafora, piuttosto che in una frase letterale. Penso che il genere fantastico forse sia quello maggiormente in grado di raccontare i nostri corpi.
Certo, perché i nostri corpi nel mondo fantastico esistono. Qual è la principessa Disney che senti più vicina?

Non sono mai riuscita a identificarmi con nessuna principessa Disney. Ho sempre trovato più connessione con gli animali presenti, o comunque con quei personaggi in grado di trasformarsi in animali. Infatti il mio film Disney preferito è La spada nella roccia, lì ci sono davvero tante trasformazioni.
Non credo sia un caso, sai. Io mi sono sempre sentita più vicina ad Ariel, perchè ha un corpo mostruoso. Probabilmente nel nostro inconscio tendiamo già a collocarci accanto al non conforme, accanto a ciò che ci sembra più simile a noi. L’affinità con la mostruosità è un aspetto che probabilmente le persone che indossano corpi conformi non possiedono. È qualcosa che a un certo punto ti impone di percorrere altre strade, e quelle strade tra corpi non conformi si assomigliano tanto. 

E infatti le strade che abbiamo dovuto percorrere durante i nostri servizi fotografici sono strade alternative che ci dicono che questo mondo non è strutturato per noi. Quello che però emerge da questi servizi è che tutti i corpi sono validi, sono meritevoli di uno shooting, anche di moda. Cosa possiamo fare per decostruire un settore così bloccato?
Innanzitutto credo che esista una reale ossessione per la perfezione, che è figlia di una tradizione culturale che arriva da molto lontano, da una definizione di bellezza greca e da una necessità delle proporzioni come criterio unico di valutazione dei corpi. Per decostruire questo modello bisogna innanzitutto rendere evidente l’esistenza di uno standard valutativo, contrapponendo ai servizi classici shooting come quelli di Flewid. Solo così chi guarda può rendersi conto che quelle gabbie rigide in cui la moda è iscritta, si possono aprire. E se da un lato sarebbe così facile aprirle, allo stesso tempo risulta ancora complicatissimo. Perché se è vero che i corpi non conformi esistono, è altrettanto vero che mancano le professionalità in grado di vederli esattamente per quello che sono.

Che questo allora possa essere un primo passo per vedere il cambiamento che auspichiamo?
Lo spero. Lo spero davvero tanto.

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