Piove.

Photography  Angelo Guttadauro
Artist Piove.
Make Up Clara Giaccari

Interview Chiara Buoni

Immagino la musica di PIOVE. intrappolata in un vetro sottile lungo il quale scorrono tante goccioline di pioggia. Si può dire di uno spazio trasparente che è un nascondiglio? A un certo punto i suoni liquidi sferzano come onde sul vetro, frantumandolo e riscoprendo il proprio rapporto con la materia ̶acqua penetrante, irrompente, contaminata. Tendendo sempre a una dimensione metafisica, PIOVE. non vive nelle città e non mostra il volto come la maggior parte degli esseri umani. Si può dire di una maschera che rappresenta un mistero?

Perché hai scelto di chiamarti PIOVE.?
Mi piacciono gli anime giapponesi, nei quali la pioggia ha sempre un valore importante ̶ c’è sempre un momento in cui piove. E adoro il lofi hip-hop, musica d’ambiente dall’estetica anime, in cui la pioggia è un elemento fondante in quanto simbolo della nostalgia. Quello della pioggia è un suono nostalgico e, per me, dagli sviluppi narrativi infiniti. 

Ti studiavo sul comunicato stampa, dove si parla di un’artista avant-pop “metaversale”, fluida e ibrida, che si esprime attraverso un mix di futuro, anime, digital 3D art, elettronica industrial e hip hop. Quindi parleresti di te in questi termini?
Quando si è influenzati da tanti elementi diversi, è davvero difficile definirsi all’interno di un comunicato stampa. Preferisco raccontare che mi trovo ad avanzare lungo un percorso di sintesi con l’intento di amalgamare tutto, ma dal punto di vista della comunicazione non ho ancora trovato una conclusione efficace. Spero che quelle parole a proposito del progetto musicale creino un immaginario futuristico ̶non a caso sembra la descrizione di una macchina elettrica inventata da Elon Musk. Voglio dire che mi svelerò sempre di più col passare del tempo, anche se in questa fase, utopisticamente mi piacerebbe che fossero già note al pubblico tutte le sfaccettature del progetto. In questo senso, scegliere delle parole è fondamentale per comunicare cosa sto facendo, e allo stesso tempo non basta mai. La parola “metaversale” è un neologismo, e a dirla tutta può risultare fuorviante perché il mio mondo non è il metaverso: essendo in collegamento con una realtà parallela, vivo tra la dimensione virtuale e quella fisica. Questi termini narrativi sono nati a livello concreto insieme ad Andrea Marmorini, manager dell’etichetta discografica Woodworm, e Valentina Marcandelli, il mio ufficio stampa. Personalmente ho costruito delle mappe concettuali per delineare il personaggio, capire cosa volessi raccontare attraverso i suoni, le parole e tutti i generi che mischio. C’è un uso prepotente dell’elettronica, che deriva da mondi digitali come il post-industrial e il glitch, per l’utilizzo dei visual e dell’avatar 3D. La parte visiva, nata da alcuni miei bozzetti, adesso è nelle mani di Angelo Guttadauro, artista visivo a tutti gli effetti. Però la maschera che indosso l’ho creata io. È stato bellissimo osservare come un oggetto creato al pc possa assumere connotazione fisiche nel giro di un’ora. Ne abbiamo stampate svariate, di spessori diversi, in modo da capire quale potesse essere la più adeguata per sostenere un concerto dal vivo senza rompersi.

Perché hai deciso di indossare una maschera di fronte al tuo pubblico?
La scelta di non mostrare il mio volto deriva da una timidezza, un’ansia sociale, che mi spinge a cercare una dimensione intima nella quale mettermi a nudo. Poi, c’è anche un motivo politico: non credo troverei stimolante mettere il mio ego al centro di tutto, e in ogni caso non lo canalizzerei in un selfie come succede spesso nella contemporanea industria musicale. Insomma, per voi ascoltatori non è più interessante porsi in relazione con un avatar musicale? 

Ascoltando “Miracolo”, il tuo primo album uscito lo scorso 13 gennaio, ho avuto l’impressione che si potesse scrivere tantissimo a proposito di ogni pezzo. Sta qui la sfida: se ti chiedessi di sceglierne soltanto uno da raccontare in dettaglio?
L’argomento che più mi ha appassionata è probabilmente il Transumanesimo, per cui scelgo “Futuro HD”, un brano simile a un discorso cerebrale-filosofico. Al contempo, devo riconoscere che “Miracolo” mi prende di più il cuore: è il grido di speranza nei confronti di un mondo che cade a pezzi, il mondo dei miei suoni distrutti. 

“Futuro” parla effettivamente del futuro o in parte già del presente? Qual è il tuo rapporto con Internet e i social network?
È chiaramente un futuro che si sta facendo sempre più presente. Mi fai riflettere sul fatto che la maggior parte del progetto è stata sviluppata grazie al computer, e molte persone ci hanno lavorato da remoto ̶ per cui la sua sorgente è immateriale. Al contempo, sui social network funziono come qualcuno che non vuole farsi vedere, ma sotto sotto ha bisogno di attenzioni. Su Instagram, dove c’è una piccola galleria d’arte virtuale, oscillo tra momenti di silenzio e altri in cui mi sforzo di capire cosa pubblicare alla ricerca di un sano equilibrio. Social come Spatial permettono di creare un avatar 3D, mentre ogni profilo è una stanza da arredare secondo le proprie esigenze. Sto preparando il mio Spatial ̶appena finisco di costruire la room vi invito tutti ̶il quale è di fatto una galleria in cui sto inserendo tutti i contenuti visivi e musicali. È paragonabile a un museo, ma mi piacerebbe organizzarci un concerto. Per concludere, riconosco che i social sono parte della nostra quotidianità, ma è diverso starci dentro in maniera attiva o passiva. Tra l’altro, il pezzo “Cuscino” parla proprio di questo.

Quale relazione intendi instaurare con il pubblico, in quali condizioni vorresti mettere l’ascoltatore attraverso “Miracolo”?
Le persone del pubblico credo siano tutte un po’ emo e, in generale, simili a me. Provando a concentrarmi su ogni spettatore, noto una bella trasversalità, in termini sia di età sia di gusto e provenienza sociale. Ed è esattamente ciò che vorrei: essere universale per non parlare solo a una categoria. Questo potrebbe incappare in una problematica collocazione del progetto? Non importa perché io voglio fluidità, essere ai bordi ma anche pop – altrimenti, senza l’ambizione di suscitare interesse in tutti gli ascoltatori, mi annoierei. Vorrei condurli in una dimensione empatica nella quale, fra le altre, ci sono anche una zona altamente cerebrale, quindi più conscious, e un’altra più dark e musicalmente impulsiva.

Cosa succede nella live session di “Sabba”?
Eravamo in uno studio di posa a Roma dove c’è la possibilità di installare una piscina a terra, e infatti sono dentro l’acqua mentre indosso i meravigliosi abiti della designer Irene Bruscoli per Dadsit. Io e gli altri siamo impazziti per trovare il modo di non morire fulminati, ma ci piaceva troppo l’idea di essere in contatto con l’elemento che caratterizza la fluidità. 

Ci dici quali sono i progetti per il 2023?
Stanno per uscire un videoclip che per la prima volta non è in 3D, perché coinvolge un essere umano, e il vinile “Miracolo 01” che mette insieme l’album e il mio primo EP. Poi prevedo alcuni appuntamenti con allestimenti particolari, i concerti, qualche festival e tutta la musica che devo ancora realizzare, magari accompagnata anche da nuove collaborazioni. Quella con Claver Gold, il quale è stato molto generoso nel lavorare a un progetto appena nato, è stata il primo respiro del progetto. Sono persino andata a Milano e Torino in apertura dei suoi concerti e, sai, non mi capita tutti i giorni di suonare davanti a un pubblico così ampio. Anche se abbiamo una cultura musicale diversa ̶lui è legato all’old school del rap italiano ̶non ha avuto problemi a farmi sperimentare… così, alla fine, ho aperto il concerto con una traccia post-rave.

Con chi ti piacerebbe collaborare?
Arssalendo, Altea di Thru collected, Deriansky e… prima o poi, un feat con Salmo lo devo fare!

Roma è la città che combacia meglio col tuo progetto?
Non ho una dimensione urbana reale, perché sono metafisica. Se invece parliamo della fatiscenza descritta nei miei testi, sicuramente possiamo immaginare uno sposalizio con Roma. Potrei raccontarti di Berlino e Londra, due scene musicali davvero stimolanti, ma la verità è che non si tratta della ricerca di una città, quanto piuttosto di un’ampia rete di persone sparse in tutto il mondo con le quali c’è condivisione artistica. 

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