Placid Gaze: Marina Cuollo

Photography Aldo Giarelli
Styling Giulio Cascini
Make Up and Hair Nando Cilione Vittozzi

DIGITAL COVER STORY
Marina Cuollo wears Dress MomoniGlasses Stylist’s archive

Interview Giada Quaranta

La rappresentazione di corpi non conformi è uno dei giganteschi punti deboli dell’industria audiovisiva. Perlopiù assenti, spesso relegati a personaggi secondari o, peggio, a macchiette stereotipate, non vivono una vera e propria tridimensionalità nelle narrazioni. Tutto ciò che vediamo sullo schermo non è l’esatta rappresentazione della realtà, ne è solo una parte, la parte che alcune persone scelgono di mostrarci. Il progetto di Aldo Giarelli con Marina Cuollo nasce come un what if: cosa succederebbe se la protagonista di un film avesse una carrozzina e non rispecchiasse i canoni dettati dalla società? Abbiamo raccontato frame presi da possibili rom-com, soap opera, thriller… per dimostrare che non è un ausilio a determinare la validità di un film, è l’impegno e la professionalità di tutti i partecipanti in gioco.

 

 

Scrittrice, attivista, autrice di podcast e speaker radiofonica, Marina spesso si definisce “scribacchina molesta” perché le etichette, così come a noi, non le sono mai piaciute. A ottobre uscirà il suo primo libro di fiction, Viola, edito per Fandango Libri; e verrà presentato in anteprima nazionale durante il festival “L’Eredità delle Donne” che si svolgerà a Firenze, dal 21 al 23 ottobre.

Ciao Marina, innanzitutto grazie di essere qui, mi sento molto onorata di poter parlare con te oggi. Come stai? 
Molto molto carica e felice per questo ottobre, ovviamente!

Vorrei iniziare la nostra chiacchierata parlando di scrittura, in particolare della scrittura di storie. Nel TEDx Cuneo dello scorso 26 marzo hai ricordato la necessità di moltiplicare le voci delle soggettività marginalizzate per creare narrazioni diverse, capaci di disinnescare la trappola dell’identificazione che costantemente definisce uno standard esclusivamente bianco, cis, eteronormato e non disabile. In questo discorso citi una frase di Adichie sul tema degli stereotipi: “Raccontare un’unica storia crea stereotipi. E il problema degli stereotipi non è tanto che sono falsi, ma che sono incompleti. Trasformano una storia in un’unica storia” (Chimamanda Ngozi Adichie, Il pericolo di un’unica storia, Einaudi, Torino 2022). Allo stesso tempo, hai ricordato in diverse occasioni come gli stereotipi non siano altro che il sintomo dell’oppressione. In quanto tali, nelle mani delle soggettività marginalizzate possono diventare uno strumento con cui colpire la stessa norma oppressiva, per esempio tramite l’ironia. Così, tra storie possibili e storie mancate, vorrei riflettere sui tuoi due libri. Nel tuo primo libro, A Disabilandia si tromba, edito da Sperling & Kupfer nel 2017, i luoghi comuni fanno arrabbiare e riflettere, ma, grazie alla tua scrittura umoristica, anche sorridere e ridere molto. Che ruolo hanno gli stereotipi nella tua comunicazione ironica?
In generale, gli stereotipi sono uno strumento che potrebbe essere definito “utile” per la comicità: sono una semplificazione di alcuni caratteri umani, danno un’idea velocissima di qualcosa, aiutano a semplificare e sintetizzare. Non può essere ignorato, però, il problema degli stereotipi di cui ci parla Adichie. Quando gli stessi elementi vengono riprodotti in continuazione, alcune persone, in particolare le persone che subiscono una serie di discriminazioni, vengono caratterizzate solo attraverso quegli stereotipi. Così nasce la cosiddetta “unica storia” che circoscrive le soggettività marginalizzate all’interno di immaginari particolarmente lesivi. La mia tipologia di umorismo utilizza moltissimo gli stereotipi per enfatizzarli a tal punto che, proprio in quanto eccessivi, si autodistruggono. Alla sensibilità di chi legge o guarda, uno stereotipo utilizzato in un modo esasperato appare già come una forma di narrazione resistente, che non prende in senso reale i caratteri citati e fa satira sullo stereotipo stesso. 

Come hai vissuto il passaggio dalla scrittura ironica del tuo primo libro alla scrittura di fiction del tuo secondo libro? (Non vediamo l’ora di leggerlo!)
Viola è una commedia, l’ironia continua a essere presente. Anche se in maniera differente, le esagerazioni che porto in Disabilandia per scherzare sui luoghi comuni che ci sono intorno alla disabilità e sui comportamenti che le persone hanno nei confronti di persone con disabilità, tornano anche in questo nuovo libro. La protagonista di questa storia, Viola, è una donna disabile; nel mondo che lei incontra attorno a sé trova alcuni dei comportamenti che io descrivo in Disabilandia. Ovviamente in questo romanzo c’è anche dell’altro, però senza dubbio i punti di contatto col mio primo libro ci sono. 

Si può riflettere a proposito di inclusività relativamente alla produzione di contenuti narrativi, interrogandosi su ciò che accade “davanti alla telecamera”, su quali personaggi vengano rappresentati e, nel caso del cinema, di chi li rappresenta; ma anche chiedendosi quali siano le soggettività narranti, chi ci sia dietro al canale comunicativo. Riguardo al tema della disabilità, abbiamo già scoperto la protagonista, Viola, che sicuramente donerà alla narrazione una prospettiva inedita. Possiamo aspettarci anche altri personaggi “non conformi” rispetto alla norma solitamente rappresentata?
Io ho fortemente voluto un personaggio, la migliore amica di Viola, che è una donna grassa. Anche lei ha un corpo non conforme ed è un personaggio che ha un ruolo chiave all’interno del libro come migliore amica della protagonista. Ho tantissime amiche che fanno divulgazione sul tema della grassofobia e spesso riflettiamo insieme su come la rappresentazione dei corpi grassi ha moltissimi punti di contatto con la rappresentazione delle persone con disabilità. L’origine dello stigma, ovviamente, è differente; quindi, anche i comportamenti nei loro riguardi sono differenti. Il corpo grasso è solitamente associato all’idea di una colpa, vi è una colpevolizzazione per il corpo che si ha. Per il corpo con disabilità, invece, questa negatività legata al corpo viene trasformata in pietismo e compassione. Pur sottolineando le differenti forme in cui si esplicita la discriminazione, sono entrambe modalità negative attraverso cui il mondo si relaziona a delle “tipologie” di corpo che non si adeguano agli standard rappresentati come la norma. All’interno del libro emerge come, nel relazionarsi a questi due personaggi, le persone abbiano due modi di comportarsi differenti… ma non voglio fare spoiler! È abbastanza evidente, però, questa particolarità di rapporto che c’è tra il mondo e i corpi non conformi. Grassofobia e abilismo sono evidenziati in questa storia soprattutto in maniera divertente, scherzosa e comica, questo è il mio modo di scrivere. 

Riguardo al tema della grassofobia, ci sono dei profili o dei testi di divulgazione, magari delle tue amiche, che ti senti di consigliarci?
Giulia Paganelli fa divulgazione con il suo profilo Instagram (@evastaizitta) e, tra l’altro, ha scritto anche la prefazione del libro Fat Phobia di Sabrina Strings che è stato di recente tradotto e portato in Italia (S. Strings, Fearing the Black Body: The Racial Origins of Fat Phobia, New York University Press, NY 2019, trad. it. a cura di M. Finaldi, Fat Phobia, Mar Dei Sargassi, Napoli 2022). Ci sono poi Chiara Meloni e Mara Mibelli, con il loro profilo divulgativo (@belledifaccia) e il loro libro per Mondadori (2021). Loro sono tutte amiche dalle quali ho imparato moltissimo sull’argomento e con cui mi confronto spesso, proprio perché i punti di contatto tra i corpi non conformi sono tantissimi. Prima di approdare sui social ignoravo completamente l’esistenza di questi discorsi, loro mi hanno insegnato tanto.

Spesso, nei tuoi articoli e interventi, si percepisce una prospettiva fortemente femminista. La tua riflessione sul diritto a esprimere la propria rabbia («Perché la rabbia è il mio superpotere», Area Marina), una rabbia che non ci si aspetta o non è considerata adeguata a una persona socializzata donna così come a una persona considerata disabile, aiuta a comprendere come l’abilismo esista per via delle stesse norme oppressive alla base del sistema patriarcale. Se il femminismo nasce dalla rabbia, il femminismo che noi vogliamo ora, un femminismo intersezionale, raccoglie la rabbia di tante più soggettività marginalizzate. Come e quando sei diventata femminista?
In realtà il mio incontro col femminismo è avvenuto abbastanza tardi, ben dopo l’adolescenza. È arrivato assieme all’incontro con la scrittura, circa sette o otto anni fa. Relativamente a questo avvicinamento un po’ “tardivo”, ho trovato molte somiglianze tra la mia esperienza e quella di altre donne disabili coetanee. Ho vissuto l’adolescenza negli anni ’90, quello era il momento in cui il femminismo cominciava a essere più intersezionale; gli spazi fisici di incontro delle donne, però, non prevedevano ancora la presenza delle donne con disabilità e delle loro istanze. Facevo davvero fatica a trovare spazi in cui fare rete con le altre donne e bisogna ricordare che all’epoca non c’erano neanche i social. Non c’era niente di tutto questo, di femminismo intersezionale, intorno a me, nel quartiere dove sono cresciuta, nella scuola in cui andavo ogni giorno. E anche se, forse, qualche luogo c’era, erano spazi fisicamente distanti da me e difficili da raggiungere. Poi, i temi classici che ha sempre affrontato il femminismo li sentivo, all’epoca, molto lontani dalle mie problematiche. Si parlava di sostegno alle donne, del corpo, della libertà sessuale, del diritto all’aborto; erano temi che sentivo lontani, io stavo ancora lottando perché il mio corpo venisse riconosciuto come un corpo adulto, come un corpo sessualmente desiderabile e per tutta una serie di necessità della vita adulta e che le donne avevano già conquistato. Poi, quando sono arrivati internet e i social, si è abbattuta la barriera che impediva di raggiungere altre donne con istanze simili alle mie. Questo incontro è avvenuto lentamente, la rete ha iniziato a espandersi, anche con i social, in un periodo in cui ci si stava rendendo conto che l’abilismo era parte della questione femminista. In quel momento mi si è aperto un mondo in termini di informazione: ho cominciato a leggere libri che trattassero delle questioni di genere, ho incontrato tantissime persone, è nato il mio fortissimo legame con la comunità LGBTQIA+, con la comunità delle donne disabili. Oggi, a distanza di un po’ di anni, posso definirmi senza dubbio una fiera femminista intersezionale.

In un bellissimo articolo che hai scritto nella tua Area Marina su Vanity Fair hai menzionato tre libri che “cambiano la narrazione delle persone disabili”: Io e lei. Confessioni della sclerosi multipla di Fiamma Satta, Non volevo morire vergine di Barbara Garlaschelli e La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi. Ci sono altri titoli che tu ritieni degni di essere menzionati in quanto capaci di trasmettere una simile volontà di autodeterminazione?
Continuando a riflettere sull’incontro col femminismo, il libro che mi ha iniziata a questo discorso è Manuale per ragazze rivoluzionarie di Giulia Blasi. Anche se, ovviamente, non si parla di disabilità in questo caso (Giulia non è una donna con disabilità ed è giusto che sia così), a me ha aperto una finestra importante. Sono una donna, talvolta l’oppressione relativa alla disabilità “oscura” l’oppressione che deriva dal mio essere donna, talvolta avviene il contrario; il libro di Giulia è stato un inizio, mi ha fatto capire che c’erano delle situazioni che io non avevo mai immaginato e che si sposavano con le mie istanze. Da lì ho cominciato a dedicarmi alla lettura di altri testi femministi molto importanti. A livello di saggistica sulla disabilità e disability studies, purtroppo abbiamo poco. Dei testi esistenti, poi, pochissimi arrivano in Italia; alcuni di questi sono pubblicati da Edizioni Erickson. Sicuramente manca una storia organica dell’abilismo, mancano molte informazioni.

Abbiamo parlato di rappresentazione, di storie, e abbiamo parlato un po’ di libri. Ti va ora di parlarci un po’ di film, serie tv, qualcosa che, come queste letture, propone nuove prospettive?
Nel panorama dell’audiovisivo, le serie tv in questi ultimi anni stanno facendo molti più passi avanti in termini di rappresentazione inclusiva rispetto al cinema classico. È molto difficile penetrare nel mondo del cinema e cambiare le cose: la disabilità è rappresentata non solo attraverso narrazioni vecchie e stereotipate, ma soprattutto tale rappresentazione viene portata avanti da persone non disabili. Nel cinema, quindi, abbiamo uno sguardo totalmente esterno relativamente al tema. Recentemente ho scritto un articolo su “Corro da te” («Sulla narrazione della disabilità nel cinema bisogna far di più», Area Marina), un film che ha diversi problemi di rappresentazione: tra questi subito possiamo notare come un’attrice non disabile interpreta un personaggio disabile. Dall’altro lato, le serie tv stanno facendo un lavoro enorme in questo senso e le cose stanno cambiando. Ci sono diversi prodotti interessanti, anche nella comedy, scritti e prodotti da persone con disabilità: Special su Netflix, scritto prodotto e interpretato da Ryan O’Connell, un uomo gay e disabile; Speechless andato in onda su Fox, una serie molto divertente che narra di una famiglia in cui uno dei figli protagonisti della serie è un ragazzo con paralisi celebrale interpretato da un attore disabile con paralisi celebrale; c’è la serie Ramy, in cui il personaggio disabile non è protagonista, però ha un ruolo molto importante e l’attore Steve Way ha contribuito tantissimo alla scrittura del suo personaggio. Infine, c’è una serie bellissima, che io ho amato tantissimo: Metro veinte, in italiano “Un metro e venti”; al momento si può vedere liberamente su Arte.tv. È una serie argentina scritta e diretta da una donna con disabilità e l’attrice principale è una ragazza con disabilità. Tratta l’argomento con uno sguardo interno, ma è anche una serie estremamente femminista ed è molto incentrata sul corpo. Finalmente si vede all’interno di una serie una donna con disabilità che fa sesso, una cosa rappresentata ancora raramente. Cito spesso questa serie perché per me è un prodotto estremamente significativo e pionieristico. Ci sono due forme di intersezione in questa serie: a raccontare il punto di vista di una persona col corpo disabile dall’interno è uno sguardo femminile e, se per le donne riuscire a entrare all’interno dell’industria dell’audiovisivo è difficile, per le donne con disabilità lo è ancora di più. Per questi motivi per me è un prodotto molto importante e ne consiglio assolutamente la visione.

Cosa è per te Viola? Immagini già un lettore o una lettrice di questo libro?
Senza spoilerare, io definisco Viola una storia di autodeterminazione. È difficile definire quale sarà il suo pubblico ma, dato che Viola è una Millennial, forse delle giovani donne (ma spero tantissimo anche degli uomini) potrebbero essere particolarmente attratte dalla trama. 

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