Power of Uniqueness: Carlotta Bertotti

Photography Irene Gittarelli
Styling Giulio Cascini
Make up and hair Martina Origlia

DIGITAL COVER STORY
Carlotta Bertotti wears dress Simon Cracker

Interview Beatrice Lorenzotti

Esorcizzazione dai limiti socialmente accettati, dall’innato senso di vergogna. Esorcizzazione dallo sconforto, talmente intenso da far venir voglia di dimenticarsi. Lo si vede lontano un miglio che Carlotta Bertotti vuole esistere nel mondo, in questo mondo. Vuole farlo con tutte le sue forze. Tuttavia, preferirebbe non essere sola nel cammino verso la libertà: tutto il sole che conserva dentro lo cede un po’ a chi, con lo sguardo malinconico, grida di voler abitare il mondo. Carlotta parla attraverso l’eccezione della forma e combatte l’emarginazione di tutti i volti e i corpi esclusi dal sistema, perché solo così si può non avere più paura di essere diversi.

 

Il tuo sguardo è una marea in piena tempesta che mi travolge il cuore. La mia curiosità si infittisce. Voglio scoprire chi è Carlotta Bertotti, parlaci di te.
Mi chiamo Carlotta, ho ventidue anni, sono nata a Torino. Mi sono laureata in Diritto per le imprese e le istituzioni e attualmente lavoro come modella, anche se ancora oggi mi fa strano dirlo, perché dall’età di otto anni mi è comparsa sul viso una voglia chiamata nevo di Ota. È un insieme di lentiggini blu di condizione benigna, non contagiosa, che prende anche all’interno dell’occhio senza causare dolore o perdita della vista. È molto conosciuta e diffusa in Asia, meno in Europa. Utilizzo i miei canali per raccontare la mia storia, per divulgare conoscenza su questa condizione poco frequente, cercando di normalizzare tutte le diverse unicità proprie di ognuno di noi. 

 

Quanto è stato difficile raggiungere l’accettazione del proprio corpo e imparare a parlare attraverso esso? Raccontaci del tuo rapporto con il nevo di Ota.

È un percorso lungo e complesso quello dell’accettazione. Quando la voglia è apparsa sul mio viso, all’età di otto anni, in una prima fase mi truccavo per nasconderla. Da più piccola usavo creme più moderate comprate in farmacia; poi il nevo di Ota è cresciuto con me e ho iniziato ad avere bisogno di fondotinta più coprenti. Non c’era un giorno in cui non mi truccassi. Quando andavo al mare, evitavo di fare il bagno per paura che potesse notarsi qualcosa. Per nascondere completamente tutta la mia voglia impiegavo due ore e ritoccavo il trucco più volte al giorno, arrivavo anche a spendere sei ore del mio tempo quotidiano. A partire dai quattordici anni ho iniziato a mettere anche una lente nell’occhio per nascondere la macchia. Poi, dall’età di sedici anni non ho più potuto perché l’utilizzo che ne facevo era talmente eccessivo che ha finito per provocarmi un’ulcera nell’occhio. Questo la dice lunga su quanto fossi ossessionata dal non voler apparire diversa agli occhi degli altri, perché è proprio per paura del loro giudizio che mi comportavo così. In fondo, per me era un sollievo togliere il trucco non appena tornavo in casa. Riuscire ad accettarmi e stare bene con il mio corpo nei contesti sociali è stato faticoso. Solo all’età

di diciotto anni è iniziata una seconda fase del mio rapporto con il nevo di Ota, totalmente opposta alla precedente: mi sono liberata del trucco e ho deciso di mostrarmi per come sono. Questo è stato possibile solo grazie a un lungo percorso psicologico durato cinque anni, il quale mi ha permesso di capire che non c’è alcun motivo di sentirsi sbagliati per le proprie diversità. Al contrario, occorre metterle in risalto perché rappresentano le unicità che ci rendono speciali.

Spesso ascoltiamo episodi di abusi fisici e verbali verso chi è diverso. Vorrei sapere se anche tu sei stata vittima di avvenimenti spiacevoli e in che modo sei riuscita a liberarti dal peso del giudizio altrui.
Fortunatamente non ho mai subito abusi fisici o atti discriminatori, né durante la fase in cui mi truccavo né successivamente. Il mio carattere forte mi ha permesso sempre di vivere mettendo le persone al loro posto, senza dare modo a nessuno di buttarmi giù. Gli unici episodi spiacevoli riguardano l’attualità. Da quando ho raggiunto il risalto mediatico, sono stata attaccata dai cosiddetti “leoni da tastiera” tramite i social. Ogni tanto qualche fake account mi scrive nei messaggi o nei commenti che lavoro solo perché ho una macchia sul volto, oppure che chiunque mi ritenga bella è solo un ipocrita e mi illude. Purtroppo dietro questi profili si celano le persone più disparate, molti sono ragazzi giovani di soli sedici o diciassette anni che alimentano il disprezzo con avversione e ostilità senza alcun tipo di motivo. Solitamente non rispondo a queste provocazioni. Se lo faccio è perché, a volte, le catene dell’odio, in cui tutti si sentono legittimati nel sostenere tesi che superano di gran lunga il limite della libertà di espressione, vanno fermate.

Il tuo lavoro è anche far capire che non c’è nulla di giusto o legittimo in un sistema basato sull’emarginazione. Parlaci dei tuoi ideali e della modalità che hai scelto per affermarli.

Il presupposto da cui parto è innanzitutto quello di slegare le convinzioni e gli stereotipi radicati in un preciso ideale di bellezza. Nella società attuale ci troviamo a dover incarnare standard fisici talmente anormali da sentirci sempre inadatte, anche quando ci troviamo semplicemente a uscire di casa nel nostro status naturale. Il mio obiettivo è quello di scalfire l’idea di prototipo di bellezza perfetta di cui grandi promotori sono sicuramente anche le realtà virtuali, ed è infatti proprio attraverso queste ultime che cerco di combatterlo. Occorre buttare giù questa vetrina instagrammabile che di giorno in giorno si afferma, per capire che nessuna voglia sul volto o unicità fisica ci fanno avere qualcosa in meno rispetto a un’altra ragazza, e perfino rispetto a una modella. Certamente le realtà nel mondo della moda sono variegate e con molte non sono riuscita a sentirmi pienamente rappresentata, soprattutto perché io in primis non volevo vendere la mia immagine, ma fare arrivare un messaggio. Diverso, invece, è stato l’incontro con l’agenzia I’mperfettaProject con cui ho firmato in maniera spontanea un contratto di esclusiva. Condivido appieno la loro idea di rappresentare una donna libera, vera, forte e far sì che ci sia una reale inclusione, dunque non soltanto il gesto perbenista che si fonda sui concetti del body positivity. In una frase posso racchiudere la mia mission: sfidare i canoni di bellezza.

 

Oggi sei una modella e svolgi un ruolo importante nel body positivity trasmettendo valori essenziali per l’inclusività. Che peso ha su di te il forte impatto sociale che ricopri?

Non sento un peso su di me, probabilmente perché mostro la mia vita così com’è ed è questo il modo in cui mi piace essere vicina a chi mi ascolta. Mi piace raccontare di me e della mia quotidianità cercando di rendere partecipe quante più persone possibili con condizioni o stati d’animo simili ai miei. Io non mi ritengo un’icona del body positivity né una influencer, ma solo una ragazza che, attraverso il proprio corpo, cerca di normalizzare qualcosa che di base è già normale perché naturale. Non c’è niente di sbagliato nell’avere questa voglia sul volto o altre diversità che oggi sono negativamente etichettate come difformità. Posso dire però che il lavoro che faccio mi permette di ricoprire un ruolo a cui sento di appartenere: aiutare tante persone a non autoescludersi, a non censurarsi. Raccontandomi in maniera spontanea, molti si riconoscono 

In una società edonistica come la nostra, per iniziare a usare l’aggettivo “diverso” in modo neutro dovremmo pensare che occorre ricominciare, riscrivendo una nuova educazione? Forse bisognerebbe riscrivere un’educazione alle emozioni.

Per rispondere vorrei ricordare il monologo che fece Drusilla Foer a Sanremo dove diceva che la parola “diversa” si trova in alto a un muro che divide due soggetti e fa sentire inadeguata la persona a cui è riferito. È proprio questa diversità che a me piace definire unicità, sulla scia di quanto afferma Drusilla. Però, occorre educare all’unicità e far sì che ciò avvenga fin da piccoli, anche all’interno della formazione scolastica, così che i bambini possano entrare in contatto con dimensioni che non facciano solo parte dello stereotipo del normale quotidiano. Moltissimi aspetti della nostra educazione nella società ci convincono che esista un’unica direzione verso cui andare, esattamente come ci fanno credere che ci sia un unico tipo di bellezza. Per far crollare tutte queste convinzioni infondate si dovrebbero raccontare avvenimenti, storie attraverso le quali si possa prendere visione della poliedricità del mondo, perché quest’ultimo non è la scuola, non è la propria cameretta o il proprio lavoro: il mondo è immenso ed è fatto di diverse culture, dimensioni, saperi e bellezze, che sono unicità. Più che ricominciare da capo e riscrivere un’educazione, perché in fondo qualcosa di buono c’è in ciò che è stato fatto, direi che occorre

stimolare la consapevolezza sul presente e sul futuro.

 

Riallacciandoci alla domanda precedente, ho visto che affronti spesso il tema dei “filtri bellezza” delle foto, presenti sulle realtà virtuali. Trasmettono un’immagine che falsa la realtà, eppure se ne abusa perché ci rendono esattamente come pensiamo di piacere agli altri. Quanto è pericoloso tutto questo?

Estremamente pericoloso. Instagram è un mezzo di comunicazione enorme che ti dà la possibilità di venire a contatto con diverse realtà, il che comporta sicuramente tantissimi benefici, così come tantissimi svantaggi. Utilizzare i filtri bellezza è uno di questi ultimi. Chi si relaziona con questo portale, soprattutto ragazzi e ragazze di dodici o tredici anni, guardano queste immagini con i filtri come fosse la normalità e il danno arriva quando poi si guardano allo specchio, perché si sentono profondamente inadeguati e non si accettano. Ci siamo imposti che gli zigomi devono essere a una determinata altezza o che gli occhi devono essere tirati all’insù, fino a privarci della nostra forma reale e naturale. So che molte volte le ragazze della mia età, ma anche più giovani, vanno dal chirurgo estetico e mostrano la foto di loro stesse con il filtro bellezza applicato dicendo: “Voglio diventare così”. Questo, non è solo molto dannoso ma anche tossico perché non facciamo altro che ossessionarci per ciò che vorremmo essere e non siamo. Cerco molto di combattere tutto questo perché quello che siamo con tutte le nostre imperfezioni fa parte della natura, e siamo belle così.

 

Torniamo per un attimo indietro nel tempo: cosa diresti alla Carlotta di dieci anni fa?

Le direi di stare tranquilla, che non ha il peso del mondo sulle spalle, che sta facendo tutto ciò che è necessario per diventare la donna che è oggi. Quella che sta vivendo è una fase momentanea, il futuro avrà tutto un altro sapore. Aggiungerei che è una tosta, che non si deve vergognare di se stessa e le direi anche che un giorno diventerà una modella, tanto per farla rimanere con la bocca aperta. La verità è che non cambierei nulla del mio passato, ogni momento è stato profondamente necessario per arrivare dove sono ora. Non le direi di struccarsi, di togliersi quel trucco pesante per nascondere il nevo di Ota, perché senza questa fase non sarei arrivata alla consapevolezza della mia bellezza e della mia essenza. Sì, il trucco è stato la mia prigione per molti anni ma, per come mi riconosco allo specchio oggi, posso dire che è stata anche la mia salvezza. 

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