Empowerment Advocates: Prisca Hartmann Gulienetti

Photography Jordi A. Bello Tabbi
Styling  Emi Marchionni
Make Up and Hair Asia Mentil
Styling Assistant Angie Paola Degano
Prisca @WomenMilano

DIGITAL COVER STORY
Prisca Hartmann Gulienetti total look Philosophy by Lorenzo Serafini

Interview Marco Natola

Comincerei col chiederti di parlare un po’ di te: come è iniziato il tuo percorso nel mondo della moda?
Ho iniziato a fare la modella nel 2014, all’inizio un po’ per gioco e per mettere da parte qualche soldino. Quando mi sono trasferita a Milano nel 2017, i giochi si sono fatti seri: è diventato un lavoro a tempo pieno, che porta a non avere una dimora fissa, a non poter organizzare nulla se non in base alle chiamate di lavoro (spesso ti comunicano la sera prima o il giorno stesso se devi lavorare, la disponibilità è la chiave). Ho dovuto imparare a gestire lo studio, a studiare nei luoghi e negli orari più scomodi per incastrare tutto. Ci vogliono molta pazienza e dedizione, ma piano piano si fa tutto. 

Pensi che il mondo della moda sia cambiato negli ultimi tempi, soprattutto rispetto al tema della diversità dei corpi e dei modi di essere? La moda rispecchia i cambiamenti sociali? 
Essendo parte degli ingranaggi di questa industria, vivo sulla mia pelle tali dinamiche e posso dire a malincuore che, per un brand considerato realmente “inclusivo”, ce ne sono ancora troppi che non riescono a uscire da standard estetici estremi. Alcuni dettano una falsa inclusività: mi riferisco ai brand che fanno campagne con modelle/i di ogni tipo e forma, ma quando poi vai sull’e-commerce per acquistare un pezzo della collezione, il capo viene indossato da una taglia 36/38 e spesso pinzato dietro la schiena. Quindi, appoggio tutti quei brand che l’inclusione la generano realmente e incoraggio gli altri a fare lo stesso. Il pubblico vuole vedere e vedersi in quei capi, non adattarsi a quei capi. Ne parlavo con mia madre che non si sente mai rappresentata all’interno della moda perché le taglie 42/44, le più diffuse in Italia, ancora non si vedono in passerella. Sfilano solo gli estremi antipodi, e lo stesso vale anche per mio padre che giustamente si chiedeva: dove sono gli uomini dalle taglie forti? I cambiamenti sociali avvengono rapidamente e tutta la moda dovrebbe rispondere di conseguenza.

La tua battaglia per l’accettazione positiva del diabete è sicuramente un aiuto per tante persone nella tua stessa condizione. Tanti diabetici di tipo 1 non riescono ad accettare tutto ciò che comprende il controllo metabolico e la somministrazione di insulina: molti decidono di trascurarsi o di sottovalutare le conseguenze di un’autogestione errata della glicemia. Che cosa diresti a un tuo coetaneo scoraggiato, che non ha accettato tutto ciò che comporta l’avere il diabete?
Come hai giustamente detto, è una battaglia per l’accettazione, ma l’accettazione del diabete a parer mio non esiste. L’ho cercata per anni invano e poi sono arrivata alla conclusione che si impara a conviverci. Dopo aver attraversato un percorso di rifiuto della malattia, con tutti i problemi di salute fisica e mentale annessi, quali glicate altissime, diabulimia e depressione, mi sono resa conto che non ero in grado di farcela da sola. Ho cambiato ben sei psicoterapeute, non è stato facile trovare quella che meglio si adattasse alle mie esigenze, e sono riuscita a elaborare dei compromessi per accettare la battaglia quotidiana di convivenza con questa malattia. Avevo anche un forte problema con i miei genitori all’epoca, anche loro sono andati dopo le sedute a parlare con la mia psicoterapeuta, poiché io non sopportavo che si comportassero da infermieri e non più come genitori. Soffrivo terribilmente il fatto che a ogni ritorno da scuola, invece di domandare come fosse andata, mi chiedessero in maniera dittatoriale l’andamento glicemico della giornata. Purtroppo, quando ci si ammala di diabete di tipo 1 nella vita viene a mancarti una cosa: la spontaneità. Sì, perché non puoi permetterti di perdere il controllo. Tutto in una giornata deve avere un senso logico, un’organizzazione. E poi la cosa più straziante è ovviamente l’infinita ripetizione di giornate scandite tra misurazioni, punture e correzioni senza sosta. Questo fa realmente impazzire. Da quando ho iniziato a parlarne, è tutto più leggero. Ho imparato anche a scherzarci sopra. Certo, ci sono delle giornate “no”, ma ora a volte riesco persino a condividere sui social le mie sciagure quotidiane legate al diabete. Il fatto di aver creato col tempo una comunità mi ha aiutata tantissimo, non sentirsi soli in una battaglia contro se stessi è importante. E poi, quanto è bello poter fare tutto? Io ho scoperto col tempo e parlando con persone incredibili come Claudio Pellizzeni, che con la giusta dose di determinazione e organizzazione si può anche fare il giro del mondo.

Il diabete di tipo 1, diagnosticato in giovane età, rende responsabili: per molte persone, già tra i dieci e dodici anni, è necessario autogestire una situazione molto delicata. Vorresti raccontarci la tua esperienza?
Mi sono ammalata nel 2012, avevo 13 anni. Sono stata male per tanti mesi prima di capire che si trattava di diabete di tipo 1. Non comprendevo inizialmente perché stessi così male, ero dimagrita tantissimo e non avevo più le forze per reggermi in piedi, bevevo e mangiavo in maniera spropositata perdendo tantissimo peso, pensavamo fosse un problema ormonale e invece… solo dopo l’esordio del diabete di tipo 1 ho avuto finalmente delle risposte. Sin da subito ho imparato a farmi le iniezioni di insulina, a gestire cibo, carboidrati e glicemie con costanza, per poi riprendere peso e forza. Il periodo difficile legato al processo di accettazione è arrivato dopo. Ma la cosa che più ho notato, è come io sia cresciuta e diventata una persona matura di colpo. Questo è stato ciò che mi ha fatta soffrire di più nel tempo, più dell’accettazione della malattia stessa. Quando da piccoli si ha un trauma o una diagnosi di una malattia difficile, si impara a vivere e vedere il mondo in maniera diversa dai propri coetanei adolescenti. Quando andavo a liceo, le mie coetanee si lamentavano per questioni che ritenevo futili e superficiali: è più importante il vestito per la festa o salvarsi la vita? Spesso mi sentivo tagliata fuori e sola, perché il diabete aveva cambiato le mie priorità, i miei valori.

Il diabete rappresenta una difficoltà nel tuo lavoro, visti anche i ritmi veloci e gli orari che fanno parte della professione di modella?
Beh, il diabete rappresenta una difficoltà in tutti i lavori dinamici. Come dicevo prima, siamo sempre in balìa della pianificazione, ma se i lavori e gli spostamenti arrivano all’improvviso, le glicemie rispondono di conseguenza. Spesso mi trovo in “ipo” mentre corro da un casting all’altro. Un’altra questione è il “cibo” che si trova sui set, quasi sempre disorganizzato e non bilanciato, infatti col tempo ho imparato a portarmelo da casa. Nel mondo della moda come in tanti altri campi lavorativi non ci sono orari definiti, quindi mi ritrovo frequentemente a pagare le conseguenze di overtime lavorativi per cui il fisico è a pezzi. Per esempio, mi sono laureata in regia e produzione l’anno scorso, e mentre lavoravo come producer su un set in notturna, dove abbiamo faticato tutti tantissimo sotto stress, sono stata male svariate volte. Purtroppo in molti campi lavorativi stressanti, il diabete entra a gamba tesa per rendere i giochi ancora più complessi.

Sei molto attiva su Instagram, con più di quindicimila follower. Parlaci un po’ del tuo rapporto con i social network.
Ho sempre desiderato essere la persona di riferimento per la me tredicenne. All’epoca volevo che ci fosse una donna diabetica e non un medico diabetologo a spiegarmi cosa significa vivere con il diabete di tipo 1. Ed eccomi qua, ho iniziato a parlarne su Instagram. All’inizio comunicavo col vuoto, poi, piano piano, tramite passaparola sono arrivata a risultati di cui sono molto contenta. Ora per qualsiasi consiglio ci sono, e le persone sanno che rispondo con gioia. Ovviamente non do consigli medici perché non ne ho le competenze, però posso dare un piccolo contributo mostrando la mia quotidianità.

Siamo in estate: hai in programma di andare in vacanza?
Mi piace vivere l’estate senza programmare troppo, mi piace vivere di contrasti: da una parte in tenda a campeggiare tra i monti, valli e fiumi incontaminati e dall’altra a qualche festival o concerto con migliaia di persone. Mi piace proprio mettermi alla prova in situazioni in cui gestire il diabete non è facile, così quando ritorno alla mia vita di città sembra tutto più facile… penso proprio che proseguirò così. 

Veniamo ai progetti per il futuro. Ci saranno delle novità?
Porterò avanti la mia lunga collaborazione con la Fondazione Italiana Diabete, tra raccolte fondi e progetti incredibili. Vorrei riprendere a fare le visite ai bambini e ragazzi negli ospedali e iniziare quelle nelle scuole, ma purtroppo a causa delle restrizioni dovute alla pandemia ancora non è possibile. Per quanto riguarda i progetti personali, sono sempre attiva nel promuovere nuove tecnologie legate al diabete, mi piace testarle sulla mia pelle e poi parlarne. Inoltre, mi occupo con altri ragazzi della comunità della creazione di progetti divertenti volti a informare e sensibilizzare a proposito della malattia. Invece, per quanto riguarda la mia carriera, ora che sono laureata non vedo l’ora di iniziare a fare un po’ di assistenza alla regia e inseguire il sogno di diventare regista. Sicuramente continuerò anche il mio percorso di studi da attrice. Insomma, non vedo l’ora di mettermi all’opera.

X