Bold and Proud: Jonathan Bazzi

Photography Irene Gittarelli
Styling  Giulio Cascini
Grooming Giorgia Palvarini

DIGITAL COVER STORY
Jonathan Bazzi wears Total Look Maison Valentino, Accessories Valentino Garavani

Interview Chiara Buoni

È il primo giorno in cui si può fare la spesa al supermercato senza indossare la FFP2. Ho una cena in zona Porta Venezia, il quartiere dell’emancipazione. Penserò che non è stato un caso incontrarci qui. Vedo Jonathan aggirarsi nel reparto ortofrutticolo, nel frattempo il mio amico elenca gli ingredienti della sua ricetta. Attorno a noi, quasi tutti hanno il volto coperto dalla mascherina. Io e Jonathan Bazzi siamo gli unici a voler riprovare il brivido, l’ebrezza, di acquistare beni di prima necessità col volto scoperto? Quando lo noto mi blocco ̶i piedi come radici nel pavimento. Non rispondo alle richieste di Andrea che chiede di passargli le melanzane, adesso è mio compito inseguire con lo sguardo l’autore dei libri che ho sul comodino. Poco dopo è lui ad avvicinarsi, accogliendo i miei occhi stupiti.
«Perdonami, non volevo fissarti. Ti sto leggendo da giorni e a breve dovrei intervistarti…»
Ci rivediamo un mese dopo seduti ai tavoli all’aperto di un bar dall’estetica naïf.
«Jonathan, posso registrare la nostra conversazione?»
Riascolterò poi la sua voce delicata, intrisa di un fascino peculiare, imporsi magicamente sul rumore del traffico milanese.

Cominciamo dal posto in cui ci troviamo adesso, un hotel lungo viale Monza, a Milano. Il sesto capitolo di Corpi minori (edito da Mondadori), il tuo ultimo libro uscito lo scorso 8 febbraio, si intitola proprio così: Viale Monza. Anche gli altri capitoli prendono il nome da vie, piazze, autostrade. Mi racconti come hai costruito l’indice e quindi poi tutto il testo?
Non pianifico molto, quando inizio a scrivere. Il risultato finale spesso non è contenuto nei progetti iniziali. Anche la struttura a capitoli alternati di Febbre, tramite cui si portano avanti due atti narrativi, due segmenti temporali diversi, è venuta fuori senza averla prima progettata. Con Corpi minori è andata in maniera simile. Avevo capito che i capitoli scandivano una mappatura sentimentale di Milano, attraverso vie, piazze e autostrade. Nella mia mente era solo un apparato provvisorio, un contrassegno personale utile per ricordarmi scene e altro materiale da riportare nel libro. Poi, ho capito che in questa planimetria risiedeva la struttura stessa del libro. Ciò si lega sia al trasferimento idealizzato dalla periferia al centro, sia ai vari traslochi fatti dentro Milano. Parliamo di una dedica sentimentale alla Milano che ho iniziato a conoscere nella mia adolescenza, una Milano vista con gli occhi della periferia, diversa da quella del discorso pubblico. Una Milano tanto ambita e poi raggiunta con le difficoltà di un giovane pieno di sogni e idee, ma senza una famiglia dietro capace di assicurargli gli espedienti, i mezzi adatti a realizzarsi completamente. 

Leggendoti si scopre che per tutta la vita salti da un progetto all’altro, da una scuola all’altra, e lo stesso vale per l’università. Questa tendenza alla instabilità creativa o creatività instabile come ha influito nella stesura dei tuoi libri? 
Volevo raccontare anche tutto ciò. La nostra società vuole farci portare avanti l’idea per cui bisogna scegliere presto cosa fare nella vita, e poi specializzarsi unicamente in questa. Io ho sempre avuto tante passioni, vocazioni, che si accavallano e confondono, coprendosi l’una con l’altra. Forse ci sono persone, tra cui me, che funzionano in maniera diversa, trovando la propria dimensione attraverso gesti ed esperienze che mettono insieme elementi eterogenei. Ne ho sofferto a lungo, ma io sono uno specialista della instabilità. Quest’ultima è una parola tanto presa di mira, un’idea raccontata in modo ingiusto, sempre come un difetto da correggere. Personalmente credo che se questa è la tua indole, troverai il modo di abitarla. Scoprirai qual è la maniera di vivere con felicità e gratificazione questa dimora emotiva. Nel caso di Corpi minori l’instabilità e la tendenza alla dispersione entrano in conflitto con l’incontro dell’amore tanto atteso. Il protagonista senza nome, al quale ho prestato alcune cose della mia esperienza, mette in discussione, instaura un corpo a corpo contro se stesso provando a non fuggire. Resistendo a se stesso, tenta di costruire una stabilità sentimentale. Infatti volevo narrare la crisi amorosa legata al passaggio dall’euforia iniziale di molte relazioni al momento in cui questa si esaurisce. Passando al processo di stesura, Febbre l’ho scritto con fluidità, in un impeto unico. Si tratta di una scrittura netta e uniforme, figlia di una costanza che mi ha stupito. Riuscivo a stare sul progetto spinto da una devozione quotidiana. Con Corpi minori è andata in un altro modo, complici forse anche le aspettative che alcuni ripongono nel secondo libro, notoriamente il più difficile. Ho avuto ansia da prestazione, di dovermi confermare soddisfacendo quelle aspettative. Ho iniziato a lavorarci nel 2019, e poco dopo è scoppiata la pandemia. Ciò ha scosso tutti, compreso me. È stato complesso conciliare tutto. Poi, è arrivata la finale del Premio strega, mi ero classificato nella sestina. Quindi, dalla convinzione di aver chiuso il progetto Febbre, sono passato al ritornarci dentro completamente, tra interviste e presentazioni, letture ed eventi. In questo scenario, puoi capire che il secondo libro mi ha richiesto un certo sforzo di volontà, lungo un percorso faticoso. Portarlo a termine è stato un atto di liberazione. 

In Corpi minori ci sono molti riferimenti a Febbre (edito da Fandango Libri), il tuo romanzo di esordio. Al contempo le narrazioni sono differenti, soprattutto dal punto di vista della scrittura. Giusto?
Li vedi incastrati, ho capito. Se in Febbre ci sono i due atti narrativi scanditi da archi temporali diversi, l’infanzia fino ai vent’anni in parallelo alla fase dei primi sei mesi del 2016, quando il protagonista ha trent’anni e compare la febbre, è soltanto in Corpi minori che, configurandosi come un midquel, si narra proprio il decennio dai venti ai trent’anni. Corpi minori narra la crisi del primo quarto di vita, quello in cui si passa dal nido familiare ai primi tentativi di diventare autonomi. Sicuramente sono due libri che si parlano, però i loro temi restano diversi, come l’io narrante di ciascuno. Da una parte la dinamica familiare è centrale, dall’altra abbiamo un ventenne ormai sulla strada della propria realizzazione personale, al di fuori del nido. Il protagonista di Febbre è meno dinamico del personaggio principale di Corpi minori: lui fa tante cose, non sempre lodevoli, preso dal bisogno impellente di trovare il proprio posto allontanandosi dai margini della periferia. Tale urgenza a volte lo fa persino precipitare nell’opportunismo ed esplorare altri territori ambigui.

Febbre è un romanzo di formazione che consiglierei a molti ipocondriaci come anche a chi soffre di omofobia. A entrambi farebbe riflettere sul fatto che si può vivere appieno, rimanendo se stessi, forse raggiungendo così la propria essenza, anche in condizioni al di là della norma. Quante idee di fluidità vi sono racchiuse?
Spero molte. Entrambi i libri fanno i conti con questo, cercando occasioni di racconto proprio nel superamento di certe strutture rigide. Febbre lo fa oltrepassando i miti del pudore e della vergogna, sia nel caso della sieropositività sia nel caso di dinamiche familiari problematiche come la violenza domestica. Cerca un immaginario, uno sguardo diverso da quello fissato dalla tradizione. L’HIV spesso è stato raccontato attraverso codici linguistici e apparati estetici anacronistici, da aggiornare. La fluidità, l’instabilità, l’ibridazione stanno anche nella ricerca di uno stile personale contro modelli stereotipati. Questi condizionamenti, i prototipi standard, possono diventare motivo di sofferenza. 

Tornando a Corpi minori, a pagina 133 scrivi: «[…] non mi sento né maschio né femmina. Certo non uomo, parola lontanissima, inindossabile. Ragazzo la posso accettare, a patto che l’accento cada più sulla collocazione anagrafica che sul sesso». Vorrei riaprissi il discorso con me.
Parlo di una dimensione che ho imparato a descrivere solo con il tempo, pur avendone sempre fatto parte. Se ripenso alla mia infanzia tutti i miei riferimenti, le figure in cui mi rivedevo, erano femminili. Tutto il mio mondo da bambino e le mie autorappresentazioni nei giochi vanno in questa direzione. Spesso le mie preferenze sono state censurate, amputate, da parte dell’esterno. I bambini hanno un grande istinto di sopravvivenza, sanno come soddisfare le aspettative altrui e anche come ottenere almeno parzialmente ciò che desiderano. Io per esempio non potevo avere le Barbie, ma mio padre diceva che potevo giocare con le bambole delle supereroine. Nel corso degli anni ho creato una collezione di questi personaggi femminili legati all’action movie. Al mattino presto, prima di andare a scuola, mi recavo nella cameretta di mio zio, poco più grande di me, il quale usciva all’alba per andare a lavorare, e tiravo fuori un borsone dentro cui conservavo le bambole. Era la mia attività principale. Non avevo molti contatti coi miei coetanei, per cui creavo il mio teatro dei burattini dandomi la possibilità di giocare come preferivo. Alle scuole elementari il momento dell’intervallo era sempre complicato: scattava puntualmente la divisione tra maschi e femmine. I primi dovevano giocare a calcio, ma a me non andava. Quindi provavo a stare con le femmine, ma se a volte mi accoglievano, altre mi percepivano come una presenza estranea. Certo, c’erano due compagni di classe maschi che ogni tanto sceglievano di giocare ai Power Rangers con me piuttosto che a calcio. Ovviamente io impersonavo sempre Kimberly, l’unica dagli abiti rosa.

Sempre in Corpi minori riporti la tua idea per la tesi magistrale in Filosofia: applicare il metodo della Fenomenologia di Husserl alla questione di genere. Ricordi come ti era venuta l’idea?
La Fenomenologia è una tradizione filosofica che si è molto caratterizzata per una vicinanza a questioni concrete e legate a un piano materiale. Parliamo di un metodo applicato all’ambito della percezione, della sensorialità, dell’arte e così via. Tuttavia, non c’era nulla che andasse in quella direzione, del rapporto tra corpo, identità ed espressione di genere. Mi avevano consigliato un libro legato al femminismo, Relazioni. Differenza sessuale e fenomenologia di Federica Giardini e poi, più vicino al cuore della mia idea, anche Queer phenomenology di Sara Ahmed. Tuttora credo che sia un campo di studi poco frequentato, invece sarebbe interessante se ci fosse una ricerca maggiore. Parliamo della nostra esperienza incarnata. Come diceva Husserl, bisognerebbe tornare alle cose stesse contro un eccesso di ermeneutica.

Qual è la conversazione più interessante che hai avuto al Salone del libro di Torino?
Ce ne sono state due molto belle: quella con Josephine Yole Signorinelli, di Fumetti brutti, con cui ho presentato Corpi minori, per poi passare ai temi dell’identità e della rappresentazione; e quella con Ginevra Lamberti, l’autrice di Tutti dormono nella valle (edito da Marsilio) con la quale ho parlato di provincia, periferia, margini. Condividiamo la riflessione sul rapporto che tra essi intercorre, sebbene poi la decliniamo in maniera diversa. Però in entrambi è motivo, origine del desiderio di scrivere. Sono stati due incontri emozionanti.  

In entrambi i tuoi libri si evince un certo fascino esercitato su di te dalla astrologia. Se si potesse assegnare un segno zodiacale alle cose, quale sarebbe quello di Flewid book e perché?
Acquario, perché nel gioco simbolico dello zodiaco è il segno che si oppone alla tradizione e a tutte le strutture di potere tradizionali. Si oppone al predominio storico del maschile, al patriarcato. È il segno della libertà, che cerca possibilità di unione e alleanza in territori inesplorati, ma anche quello degli inventori, di coloro che creano cose nuove. 

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