DIETRO LA MASCHERA

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Foto e interviste di Antonio Guzzardo a cura di Carla Monteforte

Don’t be a queen just be a drag. Che i tempi siano maturi per ribaltare il motto di Lady Gaga?

Dopo decenni di gavetta nei locali, il mondo si sta accorgendo delle regine della notte, non semplicemente uomini travestiti da donna ma artiste a pieno titolo. E questo probabilmente grazie a prodotti televisivi di enorme successo come Ru Paul Drag Race e la serie Pose che ha reso mainstream uno dei fenomeni più underground di tutti i tempi, i ball, di cui già negli anni ’80 si era accorta Madonna facendo con Vogue una vera e propria appropriazione culturale dell’universo degli ultimi tra gli ultimi di NY che, emulando le top in passerella, trovavano riscatto all’emarginazione.

Ma a che punto è la scena drag romana? Un uomo che di professione fa la drag queen viene considerato meno maschio? Esiste una discriminazione machista all’interno della stessa comunità lgbtqi?

“Dietro la maschera” di Antonio Guzzardo, cerca risposte a questi interrogativi raccontando attraverso degli scatti le storie di persone che hanno intrapreso l’arte del draging nella città del Colosseo.

Racconta di Mauro, Carmelo, Francesco, Ivan ed Emanuele prima che il trucco li trasformi in Karma B, Cristina Prenestina, Iwanda Sbelletti ed Era Splendor.

Karma B

La fusione di Carmelo e Mauro ha dato vita ai Karma B. Nati dal ventre di Catania, approdano a Roma negli anni ’90 ritagliandosi uno posto d’onore nella nightlife capitolina che viveva i suoi primi fermenti. «Dopo il World Pride sembrava che Roma dovesse esplodere, poi invece è implosa». Per fortuna però «esistono sacche di resistenza». Haus of Karma, lo spettacolo che firmano da due anni, è una di queste. Il prossimo obiettivo è portarlo al grande pubblico ma se non dovesse succedere: «Il karma ha sempre strade che la ragione non conosce». L’importante è avere fiducia nel lavoro «e noi siamo dei muli».

Siete arrivate alla tv generalista.

«È la televisione che è arrivata a noi. Abbiamo detto tantissimi no, prima di accettare “All together now”. La nostra condizione è ed è sempre stata quella di non fare i fenomeni da baraccone. Siamo showgirl noi!»

La tv finalmente vi prende sul serio, credete che sia dovuto al successo di Ru Paul, Pose?

«All’estero sicuramente. In Italia mi auguro si stiano accorgendo che la figura della drag è una figura completa, attraente. Del resto già negli anni ’70 c’erano le Sorelle Bandiera.

Noi siamo come un canale generalista e in base agli orari facciamo quello che ci pare. Haus of Karma è il nostro rifugio dove facciamo le cose più di nicchia, con personaggi che sono un po’ i nostri portavoce. Si parla di tutto: dal sesso alla politica».

Perché è nato Haus of Karma?

«Perché a noi stare tranquilli non piace. Due anni fa ci siamo detti: cosa possiamo fare per complicarci la vita? Facciamo uno spettacolo underground con zero soldi, con sconosciuti, in un luogo che è una discoteca o una sala concerti (Largo Venue, ndr). La prima serata ci siamo fatti il segno della croce. Ma alla fine si è creata un’atmosfera in cui anche le cose sbagliate diventavano giuste».

Quanto ha influito il vostro mestiere sulla vostra vita sentimentale?

«È stato complesso: ad un certo punto dovevi confessare. Tuttora nelle dating app in molti specificano “No drag”. Drag non è una sessualità. Ma ancora si fa confusione tra drag e travestito. Esiste una discriminazione nei riguardi di chi fa questo lavoro ed è scandalosa perché avviene all’interno della nostra comunità: noi teoricamente siamo fratelli e sorelle. Il Gay Pride serve proprio a rappresentare una pluralità di anime».

 Togliendo la maschera, chi sono Mauro e Carmelo?

«Dipende, a volte siamo vicini alla nostra maschera. La maschera è terapeutica perché permette di far finta di essere felice anche quando si è giù e un po’ di quella finzione di resta attaccata addosso».

Come vedete Haus of Karma tra 10 anni?

«In televisione. Sarebbe bello potesse arrivare a più persone possibile perché tutti quelli che vengono a vederlo ne escono felici. Donne, ragazzini, etero, gay, tutti ne escono pieni di emozioni. Succede qualcosa in quello spettacolo.

Ru Paul ci ha messo 30 anni e prima di Drag Race era finito. Non c’è mai un momento preciso: l’importante è essere pronti. E noi siamo pronti».

Era Splendor

Emanuele è un ragazzo romano che non ha una vita fatta d’eccessi. «Mi occupavo di ristorazione ma la routine mi stava stretta. Decisi cosi di fare la drag, per tenere la menta attiva». Fu cosi che nacque Era. Splendor come la lacca: «Era un modo per restare in testa a tutte le drag».

Il draging, nato decenni fa, sta prendendo il sopravvento grazie a serie tv, talent. Questo tipo di lavoro come è visto in una città come Roma?

«Siamo leggermente avanti rispetto alla provincia ma anche Roma è indietro. Capita ancora che esce la drag e c’è gente che ride. Feste come Muccassassina hanno sdoganato la figura con il pubblico etero che le frequentano. Molti però confondono ancora la drag con il travestito».

Che cosa ha pensato la tua famiglia quando ha saputo che facevi questo lavoro?

«Mia madre ha scoperto sia del mio lavoro che della mia sessualità in maniera molto naturale.

Mio padre ha avuto bisogno di più tempo. Ha scoperto del mio lavoro dalla tv (Si tu que vales). Io portavo uno spettacolo sull’omofobia ed il messaggio che volevo trasmettere era di fregarsene. Quel messaggio a mio padre arrivò: oggi mi segue sui social, fa vedere il mio lavoro agli amici».

In cosa consiste il mestiere della drag?

«È un mestiere molto complesso poiché racchiude tante arti diverse tra loro: makeup, costume, danza, acconciatura e poi personalità. Devi avere un qualcosa che il pubblico capta. Ogni drag ha quella cosa che la differenzia, la mia è condurre. Ma un po’ di drag c’è in ognuno di noi anche nello scaricatore di porto: bisogna ascoltarla».

Gli uomini che fanno le drag nel mondo gay sono discriminati?

«La mia storia passata è finita per questo motivo. «Il mio ragazzo non può vestirsi da donna», diceva il mio ex. Io continuai per la mia strada. Chi fa la drag viene visto come meno maschio soprattutto nel panorama omosessuale in cui va di moda il macho perché è il maschio eterosessuale riportato nel mondo gay.

Adesso ho un ragazzo che finalmente ha capito che io sono Emanuele e quello è il mio lavoro, che inizia e finisce».

Chi è Emanuele?

«Emanuele è un ragazzo “normale”, la drag è un po’ una maschera, la metti e diventi un’altra persona. Nella mia vita di tutti i giorni sono quello che non sono quando lavoro e forse il mio punto di forza è quello. Quando sei sempre persona non va bene, quando sei sempre personaggio non va bene, bisogna scindere le due cose.

Quando iniziai questo lavoro ho pensato: «Voglio riuscire a fare questo nella vita, anche per un periodo». Ci ho messo tanto: ho fatto gavetta nei ristoranti, concorsi, esperienze televisive, cinematografiche. In Italia e a Roma non è semplice».

Perché?

«Ogni volta per cachet devi scannarti. Il mio lavoro inizia quando inizio a togliermi i peli non sono quei 3 minuti di esibizione».

Iwanda Sbelletti Pellegrino Superstar

Ivan è napoletano e vive a Roma dal 2001, fa parte di Roboterie, una crew techno queer. Per i suoi primi 40 anni si è regalato Iwanda. «Mi sono comprata i trucchi, la parrucca, vestiti delle amiche. Ho cominciato a girare per centri sociali». Per fare la drag queen ha smetto di fare il barista. Il Forte Prenestino è la sua famiglia.

Sei una drag sui generis, nata all’interno di un contesto diverso.

«Ho cercato di lavorare nello spettacolo da quando avevo 20 anni. Ho fatto tanti provini. Poi ho iniziato a fare il barman e basta. C’era qualcosa che non andava, poi è arrivata Iwanda. Dopo un corso di satira con la Guzzanti ho cominciato a fare stand-up comedy con le Karma B e ho inciso anche il mio primo singolo “Bashtag”».

Com’è la scena drag a Roma?

«Dopo mezzanotte e un paio di birre drag queen, travestite e trans siamo tutti uguali: per i maschi semo tutte “abbella”. Siamo relegate alle discoteche. Le drag siamo viste come gogoboys in gonnella o delle prostitute travestite».

Perché non siete viste come artiste?

«Esiste una parte di persone che ci considerano tali. Negli ultimi 10 anni, anche grazie a Ru Paul, il draging sta diventando un’arte. L’Italia però arriva sempre un po’ tardi.Ma sono piuttosto ottimista. Forse a 80 anni cambierò sesso cosi sulla mia tomba potrò scrivere: “Visse da uomo mori’ da gran signora”».

Tu vivi in un ambiente particolare.

«Da poco in realtà, da due mesi vivo al centro sociale del Forte Prenestino che frequento da 15 anni. Da quando è morta mia madre è diventata la mia famiglia. Ha tutte le caratteristiche della famiglia. La gente lo associa alla droga ma è un luogo comune».

Quando si toglie trucco e parrucco chi è Ivan?

«Ivan e Iwanda non sono molto diversi: Iwanda è Ivan all’ennesima potenza. Sono sempre stato una pazza, Iwanda lo ha solo confermato».

Cristina Prenestina

Francesco viene dalla provincia pugliese e fa l’assistente sociale. Nella vita tutto avrebbe immaginato tranne che diventare una drag queen. «Un mio ex mi disse: “Se dovessi vedere il mio ragazzo vestito da donna lo lascerei perché non riuscirei più a vederlo uomo». Un giorno però rimase solo con un 43 tacco 12 e nacque Cristina…

Quindi è nato tutto per caso?

 «Fare la drag, in realtà, era il sogno del mio coinquilino. Un giorno alla Gay Street un ragazzo mi invitò ad un concorso: iscrissi entrambi. Vincemmo le regionali».

Perché Cristina Prenestina?

«Quando capimmo che personaggio volevamo essere ci siamo dati dei nomi. Volevamo fossero legati al luogo in cui abitavamo: Prenestina era il mio cognome d’obbligo. Cristina è invece legato alla regina Cristina di Svezia: la leggenda narra fosse ermafrodita e che rinunciò al trono per venire in Italia e vivere liberamente la sua omosessualità. Nella sua camera da letto c’è infatti inciso “Nacque libera e morirà libera”. Anche io ho iniziato a vivere la mia libertà quando lasciai la Puglia per Roma. Quando feci il mio coming out con mia madre le dissi: “Potevo scegliere di vivere in una menzogna ma ho scelto di essere libero”».

Come vivono i tuoi genitori il tuo essere drag?

«Quando ho iniziato ho pensato di non dirglielo, loro vengono da un paesino del sud Italia e non è così semplice. Ma ho pensato che sarei diventato ricattabile non dicendolo, sarebbe bastata una mia foto durante un’esibizione. Allora l’ho spiegato a mamma, adesso è la mia costumista».

Un uomo che fa la drag è meno uomo di altri?

«Esiste molto pregiudizio all’interno della comunità lgbt che chiede sempre più il machismo e la eteronormalizzazione della coppia. L’uomo che si traveste da donna spezza un archetipo e ciò per me è un gesto già. Tutto è politico, anche Cristina alla quale ho dato un carattere leggero proprio per veicolare meglio alcuni messaggi. Le serate gay inizialmente nascevano con questo obiettivo, ora sono diventate dei brand. Ciò che mi ha distinto dalle altre colleghe è stato il parlare di attualità».

Com’è visto il draging a Roma?

«Girando l’Italia ho potuto constatare che il livello artistico delle drag romane è altissimo. Il problema è che l’ambiente è diventato un po’ troppo glamour dimenticando quello che doveva essere il messaggio di Stonewal: il movimento nasce da una travestita che si ribella. Il ruolo del travestito nella lotta ai diritti gay è un ruolo chiave, centrale, ma ce lo dimentichiamo e pensiamo soltanto di fare le soubrette. Abbiamo una responsabilità maggiore».

Tolto il trucco Francesco chi è?

«Faccio l’assistente sociale, un lavoro che ti mette in costante contatto con il disagio, con le fasce più deboli, con storie che spesso finiscono male. Un lavoro che ti riempie ma in cui devi mettere in conto la tristezza. Cristina è la valvola di sfogo»

Thanks to: B&B Second Floor, via San Giovanni in Laterano, 10.

                    Livio Rizzo Giudici and Crita Ceramiche.

                   Forte Prenestino CSOA Via Federico Delpino, 187.

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